PROLUSIONE DELL’ARCIVESCO CARBONARO IN OCCASIONE DELL’INAUGURAZIONE DELL’ANNO ACCADEMICO DELL’ISTITUTO TEOLOGICO DI BASILICATA
Il cammino discepolare di Pietro nel Vangelo accompagna la nostra speranza
Con questo solenne atto il nostro Istituto Teologico di Basilicata apre l’anno accademico. Desidero salutare quanti sono qui convenuti. S. Ecc.za Rev.mo Mons. Petar Rajic Nunzio Apostolico in Italia che ci onora della Sua presenza e per le parole di saluto che ha voluto rivolgere a me e alla nostra istituzione accademica. Grazie Eccellenza, in lei vediamo viva la comunione con Papa Francesco successore dell’apostolo Pietro e l’obbedienza al Suo Magistero. Saluto il mio predecessore S. Ecc.za Mons. Salvatore Ligorio, gli Eccellentissimi Arcivescovi e Vescovi di Basilicata con i quali condivido i progetti di formazione teologica del nostro Istituto. Il Chiarissimo Prof. Don Nicola Soldo, il Senato Accademico, i Docenti, i Seminaristi, gli Alunni le Autorità accademiche e civili, a tutti voi qui presenti, desidero augurare ogni bene nel Signore Gesù Cristo nostra Speranza e nostra Pasqua.
Come sapete in questo mese di Ottobre 2024 si è svolta a Roma la seconda sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi a cui seguirà, come ci ricorda la Costituzione Episcopalis Communio di Papa Francesco, la fase della sua attuazione, con lo scopo di avviare in tutte le Chiese particolari la recezione delle conclusioni sinodali seguendo quelle indicazioni emerse durante il discernimento dei pastori. È dunque importante prepararci a questo lungo e, immaginiamo, impegnativo passaggio iniziando a riflettere insieme secondo lo stile sinodale che abbiamo imparato a conoscere. Da questo punto di vista un Istituto Teologico è un luogo appropriato, perché qui più che altrove si riflette, si insegna, ci si prepara culturalmente affinché l’intelligenza della fede sia di supporto alla speranza che ogni discepolo di Gesù conserva nel cuore come una risorsa, in vista di quella testimonianza della carità, dell’amore che è l’essenza stessa del cristianesimo e che anche il mondo attende.
A questo proposito, poiché diventare comunità sinodali non è facile ed essere discepoli del Maestro Gesù è oggi sempre più impegnativo, vorrei offrirvi questa mia riflessione presentando non tanto un’immagine astratta di tale processo, che pure potrebbe rimanere impressa nell’immaginario, piuttosto l’esempio concreto di una persona che ha seguito Gesù, quasi fin dall’inizio della sua missione terrena e che non solo ha vissuto sulla sua pelle il cambiamento apportato dal Signore nella sua vita di pescatore, ma ha dovuto a sua volta affrontare varie inaspettate conversioni soprattutto quando, venuta meno la presenza fisica e terrena di Gesù, è divenuto colui che ha preso in mano le redini della Chiesa primitiva fidandosi delle assicurazioni dategli dal Signore e forte del dono dello Spirito Santo che la prima comunità ricevette a Gerusalemme. Sto evidentemente parlando dell’Apostolo Pietro. E’ lui la figura a cui voglio ritornare affinché, come successe a lui per primo, ciascuno di noi, le nostre comunità, compresa questa dello Studio teologico, impariamo di nuovo a seguire il Signore Risorto o per lo meno troviamo forza e vigore nell’annuncio dell’evangelo, fra i cambiamenti e le novità che il mondo ci presenta.
Questo ritorno alla Parola di Dio e ai suoi protagonisti, come lo fu Pietro, fra l’altro, era già un auspicio del Concilio. Nella Dei Verbum vi leggiamo: «Nei libri sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con essi; nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa la forza della loro fede, il nutrimento dell’anima, la sorgente pura e perenne della vita spirituale». Ma poi la stessa Costituzione Dogmatica insiste, rivolgendosi ai teologi: «La sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione; in essa vigorosamente si consolida e si ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo. Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio, sia dunque lo studio delle sacre pagine come l’anima della sacra teologia» (nr 21 e 24).
Sono convinto che la figura di questo grande apostolo, con tutto quello che ha passato, dalla chiamata al tradimento del Signore, fino a divenire il custode dell’amore e dell’unità nella Chiesa di Cristo, sia fonte inesauribile di insegnamenti. Così pure sono certo che la sua vicenda al seguito di Gesù possa aiutarci a rispondere a quella domanda che poneva il Documento preparatorio al Sinodo dei Vescovi: «Come si realizza oggi, a diversi livelli (da quello locale a quello universale) quel «camminare insieme» che permette alla Chiesa di annunciare il Vangelo, conformemente alla missione che le è stata affidata; e quali passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere come Chiesa sinodale?» (cfr. nr. 2). Il medesimo documento a seguire ricordava il contesto storico nel quale viviamo, segnato da cambiamenti epocali della società e da un passaggio cruciale della vita della Chiesa, che non è possibile ignorare e come nelle pieghe della complessità di questo contesto, nelle sue tensioni e contraddizioni siamo chiamati a «scrutare i segni dei tempi ed interpretarli alla luce del Vangelo» (GS, n. 4). Anche Pietro visse in un contesto sociale, culturale e religioso complesso e articolato, e si trovò a gestire da subito un cambiamento di rotta epocale per la Chiesa. Egli, attraverso la Parola di Dio, parla ancora oggi alla Chiesa di Cristo.
Venendo alla persona di Pietro e a cosa può dirci, ci chiediamo innanzitutto: perché proprio lui? È così importante? Dopo Gesù, questo Apostolo è il personaggio più noto e citato negli scritti neotestamentari. Viene menzionato 154 volte con il soprannome di Pétros, «pietra», «roccia», che è la traduzione greca del nome aramaico datogli direttamente da Gesù, Kefa, attestato 9 volte soprattutto nelle lettere di Paolo. Si deve poi aggiungere il frequente nome Simòn (75 volte), che è una forma grecizzata del suo originale nome ebraico Simeòn (At 15,14; 2 Pt 1,1). Di lui sappiamo che era figlio di Giovanni (Gv 1,42) o, nella forma aramaica, bar-Jona, figlio di Giona (Mt 16,17). Simone era di Betsaida (Gv 1,44), una cittadina a oriente del mare di Galilea, da cui veniva anche Filippo e naturalmente Andrea, fratello di Simone e la sua parlata tradiva l’accento galilaico. Insieme al fratello era pescatore e con la famiglia di Zebedeo, padre di Giacomo e Giovanni, conduceva una piccola azienda di pesca sul lago di Genezaret (Lc 5,10). Doveva perciò godere di una certa agiatezza economica ed era animato da un sincero interesse religioso, da un desiderio di Dio. Desiderava che Dio intervenisse nel mondo e questo lo spinse a recarsi col fratello fino in Giudea per seguire la predicazione di Giovanni il Battista (Gv 1,35-42). Questo ci svela come Pietro fosse un ebreo credente ed osservante, fiducioso nella presenza operante di Dio nella storia del suo popolo, e addolorato per non vederne l’azione potente nelle vicende di cui egli era, al presente, testimone.
In tale frangente avviene il suo primo incontro con Gesù. I Vangeli sinottici ci informano che Pietro è tra i primi quattro discepoli del Nazareno (Lc 5,1-11), ai quali se ne aggiunge un quinto, secondo il costume di ogni Rabbi di avere cinque discepoli (Lc 5,27: chiamata di Levi). Quando Gesù passerà da cinque a dodici discepoli (Lc 9,1-6), sarà infine chiara la novità della sua missione. Egli non è uno dei tanti rabbini, ma è venuto a radunare l’Israele escatologico, simboleggiato dal numero dodici, quante erano le tribù d’Israele. Simone appare nei Vangeli con un carattere deciso e impulsivo; egli è disposto a far valere le proprie ragioni anche con la forza: si pensi all’uso della spada nell’Orto degli Ulivi: cfr Gv 18,10s. Al contempo è a volte anche ingenuo e pauroso, e tuttavia onesto, fino al pentimento più sincero (Mt 26,75). I Vangeli consentono di seguire passo dopo passo il suo itinerario spirituale. Il punto di partenza è la chiamata da parte di Gesù. Avviene in un giorno qualsiasi, mentre Pietro è impegnato nel suo lavoro di pescatore. Gesù si trova presso il lago di Genesaret e la folla gli fa ressa intorno per ascoltarlo. Il numero degli ascoltatori crea un certo disagio. Il Maestro vede due barche ormeggiate alla sponda; i pescatori sono scesi e lavano le reti. Egli chiede allora di salire sulla barca, quella di Simone, e lo prega di scostarsi da terra. Sedutosi su quella cattedra improvvisata, si mette ad ammaestrare le folle dalla barca (Lc 5,1-3).
E così la barca di Pietro diventa la cattedra di Gesù. Quando ha finito di parlare, dice a Simone: «Prendi il largo e calate le reti per la pesca». Simone risponde: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» (Luca 5,4-5). Gesù, che era un falegname, non era un esperto di pesca: eppure Simone il pescatore si fida di questo Rabbi, che non gli dà risposte ma lo chiama ad affidarsi. La sua reazione davanti alla pesca miracolosa è quella dello stupore e della trepidazione: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore» (Lc 5,8). Gesù risponde invitandolo alla fiducia e ad aprirsi ad un progetto che oltrepassa ogni sua prospettiva: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5,10). Pietro non poteva ancora immaginare che un giorno sarebbe arrivato fino a Roma per il Signore. Egli accetta questa chiamata sorprendente e si lascia coinvolgere in questa grande avventura: è generoso, si riconosce limitato, ma crede in Colui che lo chiama e insegue il sogno del suo cuore. Dice di sì coraggioso e generoso e diventa discepolo di Gesù.
Se già da questo primo quadro possiamo noi stessi rivivere la personale chiamata a divenire discepoli e a coltivarla, che dire dell’impostazione del tutto originale che invece l’evangelista Giovanni ci offre della chiamata dell’Apostolo. Sorprendentemente egli non è il primo chiamato, sarà suo fratello Andrea a coinvolgerlo («Abbiamo trovato il Messia», Gv 1, 41) e a condurlo da Gesù. Pietro non ricevette per primo, come il fratello ed un altro discepolo del Battista che stava con lui, neanche quell’invito a venire a vedere dove rimaneva il Signore. Venire, vedere, rimanere nel Signore, sono infatti temi di grande rilevanza teologica per il Quarto Vangelo. Tanto profondi che secoli dopo, Guglielmo di Saint-Thierry, l’amico di San Bernardo, interpretò in senso spirituale e trinitario la domanda dei primi discepoli: «Maestro, dove dimori? Vieni e vedi, disse Egli. Non credi che io sono nel Padre, e che il Padre è in me? Grazie a te, Signore! […] Noi abbiamo trovato il tuo luogo. Il tuo luogo è il Padre; e ancora, il luogo del Padre sei tu. Tu sei dunque localizzato a partire da questo luogo. Ma questa localizzazione, che è la tua, […] è l’unità del Padre e del Figlio». Pietro nel Quarto Vangelo viene sempre dopo, deve rincorrere, ad esempio il discepolo amato fino al sepolcro, anche se poi entrerà per primo (Gv 20, 3-6) e dallo stesso dovrà ricevere l’esatta identificazione di chi fosse quel tale che li aveva mandati a pescare 153 grossi pesci: «E’ il Signore» (Gv 21, 7). Eppure Pietro, a differenza degli altri, appena incontra Gesù riceve un cambiamento, nel nome come nella vita: «Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa – che significa Pietro» (Gv 1, 42).
La vicenda autobiografica dell’Apostolo Pietro, come ci viene narrata dalla sinfonia dei Vangeli ci dice già molto su chi sia un discepolo e una discepola del Signore Gesù. E’ una persona sulla quale Egli fissa il suo sguardo, qualcuno a cui viene rivolta una parola personale e un invito esigente che domanda un cambiamento di vita, oltre che la disponibilità a seguire il Maestro. Ma ciò che il Signore fa e dice al singolo è rivolto anche all’intera comunità dei credenti. Così Pietro, pur avendo il primato, deve essere aiutato da altri ad incontrare il Signore e a riconoscerlo, secondo un vero spirito sinodale. Gesù chiaramente supera, nella vicenda della chiamata di San Pietro, l’antico procedimento che rispettava la primogenitura nell’ambito delle relazioni familiari. «Fra voi non sia così» (Mc 10,45), dirà agli apostoli che esigevano onori e primazie. E poco prima aveva ugualmente dovuto sedersi mentre camminava per le strade di Galilea e ricordare a Pietro e agli altri: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9, 35). Gesù non raccoglie il frasario dei discepoli, non lo accetta. Mentre questi discorrono su «chi fosse il più grande», Egli invece parla di primo e di ultimo. Cosa vuol dire questo? Che Gesù non esclude che nella comunità ci siano precedenze, che qualcuno sia il primo e non semplicemente il più grande. Ma dice anche che costui dev’essere uno che si mette al servizio in modo incondizionato, sia, cioè, il diacono (diakonos) di tutti gli altri. Lungo la strada che conduce a Gerusalemme, la ricerca di potenza, di benessere e di prestigio dei discepoli si scontra con la logica di Gesù, secondo cui il Regno è servizio e in esso il primo è colui che serve. La discussione culminerà più avanti con questa affermazione che ricapitola tutto, dove Gesù di nuovo si pone come esempio: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). Le parole del Vangelo non danno adito a fraintendimenti, allora come oggi.
Un altro momento significativo del cammino spirituale che fu di Pietro e che ci riguarda da vicino come Chiesa è l’episodio svoltosi nei pressi di Cesarea di Filippo, quando Gesù pose ai discepoli una precisa domanda: «Chi dice la gente che io sia?» (Mc 8,27). A Gesù però non basta la risposta del sentito dire. Da chi ha accettato di coinvolgersi personalmente con Lui vuole una presa di posizione personale. Perciò incalza: «E voi chi dite che io sia?» (Mc 8,29). È Pietro a rispondere per conto anche degli altri: «Tu sei il Cristo», cioè il Messia.
Questa risposta di Pietro, che non venne «dalla carne e dal sangue» di lui, ma gli fu donata dal Padre che sta nei cieli (Mt 16,17), porta in sé come in germe la futura confessione di fede della Chiesa. Tuttavia Pietro non aveva ancora capito il profondo contenuto della missione messianica di Gesù, il nuovo senso di questa parola: Messia. Lo dimostra poco dopo, lasciando capire che il Messia che sta inseguendo nei suoi sogni è molto diverso dal vero progetto di Dio. Davanti all’annuncio della passione si scandalizza e protesta, suscitando la vivace reazione di Gesù (Mc 8, 32-33). Pietro vuole un Messia «uomo divino», che compia le attese della gente imponendo a tutti la sua potenza. Gesù invece cela se stesso dietro la figura del Figlio dell’Uomo. Ma Pietro prima ed i discepoli poi sanno che la figura del Figlio dell’uomo è potente e gloriosa, impossibile quindi che vada incontro a sventure, sofferenze, sconfitte. Pietro respinge questa presentazione e Gesù lo bolla come Satana (Mc 8,33), mentre i discepoli parlano d’altro. È anche un nostro desiderio che il Signore imponga la sua potenza e trasformi subito il mondo. Gesù invece si presenta come il «Servo di Dio» che sconvolge le aspettative della folla prendendo un cammino di umiltà e di sofferenza. È la grande alternativa, che anche noi dobbiamo sempre imparare di nuovo: privilegiare le proprie attese respingendo Gesù o accogliere Gesù nella verità della sua missione e accantonare le attese troppo umane. Pietro, impulsivo com’è, non esita a prendere Gesù in disparte e a rimproverarlo. La risposta di Gesù fa crollare tutte le sue false attese, mentre lo richiama alla conversione e alla sequela: «Rimettiti dietro di me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33). Non indicarmi tu la strada, io prendo la mia strada e tu rimettiti dietro di me.
Pietro impara così che cosa significhi seguire davvero Gesù. È la sua seconda chiamata, analoga a quella di Abramo in Genesi 22, dopo quella di Genesi 12: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà» (Mc 8,34-35). Con fatica, Pietro accoglie l’invito e prosegue il suo cammino sulle orme del Maestro. E mi sembra che queste diverse conversioni di san Pietro e tutta la sua figura siano una grande consolazione e un grande insegnamento per noi Chiesa di oggi. Anche noi abbiamo desiderio di Dio, anche noi vogliamo essere generosi, ma anche noi ci aspettiamo che Dio sia forte nel mondo e trasformi subito il mondo secondo le nostre idee, secondo i bisogni che noi vediamo. Dio sceglie un’altra strada. Dio sceglie la via della trasformazione dei cuori nella sofferenza e nell’umiltà. E noi, come Pietro, sempre di nuovo dobbiamo convertirci. Dobbiamo seguire Gesù e non precederlo: è Lui che ci mostra la via. Pietro ci insegna ancora oggi: Tu Chiesa pensi di avere la ricetta e di dover trasformare il cristianesimo, ma è il Signore che conosce la strada. È il Signore che dice a ciascuno di noi, come a Pietro: «Seguimi!».
Infatti, questo invito alla sequela è l’ultimo comando che Pietro ricevette dal Signore, secondo il Vangelo di Giovanni. Il capitolo 21 del Quarto Vangelo che chiaramente è stato aggiunto in seguito all’opera, rivela in filigrana la situazione di una Chiesa che deve ormai fare i conti con la sinodalità al suo interno e l’accoglienza amorevole delle diverse tradizioni e sensibilità, dopo che il Signore Risorto è ritornato al Padre e, probabilmente, dopo che anche gli apostoli sono ormai morti. Quale è in questo contesto nuovo il ruolo di Pietro? È lui che prende l’iniziativa di andare a pescare e gli altri lo seguono, immagine di una Chiesa che vorrebbe attrarre a sé, allora come oggi, una moltitudine di persone, ma senza la presenza del Risorto, l’esito sarà negativo. Con la presenza di Gesù che li invita a gettare le reti da un lato diverso, queste si riempiono in modo straordinario. Cosa accade da questo momento a Pietro? Abbiamo già detto che senza la testimonianza del discepolo amato, che sta alla radice della tradizione giovannea e del Quarto Vangelo, il quale indica a Pietro il Signore sulla riva, non avrebbe potuto riconoscere Colui che li aveva inviati a uscire per la pesca. Egli, subito, si getta dalla barca per andargli incontro e il Vangelo ci narra dell’ennesima conversione di questo straordinario Apostolo, attraverso un gioco di verbi molto significativo. In greco il verbo «filéo» esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo «agapáo» designa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato. Gesù domanda a Pietro la prima volta: «Simone, mi ami tu (agapâs me)», cioè secondo questo amore totale e incondizionato (Gv 21,15)? Prima dell’esperienza del tradimento l’impulsivo Apostolo avrebbe certamente detto: «Ti amo (agapô se) incondizionatamente». Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà e della propria debolezza, con umiltà dice: «Signore, ti voglio bene (filô se)», ovvero «ti amo del mio povero amore umano». Il Cristo insiste: «Simone, mi ami tu di questo amore totale?». E Pietro ripete la risposta del suo umile amore umano: «Kyrie, filô se», «Signore, ti voglio bene come so». Ma la terza volta Gesù dice a Simone soltanto: «Fileîs me?», «mi vuoi bene?». Simone comprende che a Gesù basta il suo povero amore, l’unico di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. Gli risponde perciò: «Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene (filô se)». Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù.
È proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo Pietro, ma anche a noi singoli e comunità che abbiamo conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Quante ne ha sottolineate il Sinodo o il magistero di Papa Francesco. Da qui nasce la fiducia che renderà Pietro capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi» (Gv 21,19). Da quel giorno Pietro ha «seguito» come vero discepolo il Maestro con la precisa consapevolezza della propria fragilità; ma questa consapevolezza non l’ha scoraggiato. Egli sapeva infatti di poter contare sulla presenza accanto a sé del Risorto. Dagli ingenui entusiasmi dell’adesione iniziale, passando attraverso l’esperienza dolorosa del rinnegamento ed il pianto della conversione, Pietro è giunto ad affidarsi a quel Gesù che si è adattato alla sua povera capacità d’amore. Ed è proprio l’amore ciò che definisce e contraddistinguerà da allora in poi il suo compito e servizio nella Chiesa. E mostra così anche a noi discepoli e discepole di oggi la via, nonostante tutta la nostra debolezza. Con Pietro sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. È stato per Pietro un lungo cammino che lo ha reso un testimone affidabile, «pietra» della Chiesa, perché costantemente aperto all’azione dello Spirito di Gesù. Egli stesso si qualificherà, in un suo scritto, come «testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi» (1Pt 5,1). Quando scriverà queste parole sarà ormai anziano, avviato verso la conclusione della sua vita che sigillerà con il martirio. Sarà in grado, allora, di descrivere la gioia vera e di indicare dove essa può essere attinta: la sorgente è Cristo creduto e amato con la nostra debole ma sincera fede, nonostante la nostra fragilità. Perciò scriverà ai cristiani della sua comunità, e lo dice anche a noi: «Voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime» (1Pt 1,8-9).
Nel documento preparatorio al Sinodo dei Vescovi si leggeva: «La sinodalità rappresenta la strada maestra per la Chiesa, chiamata a rinnovarsi sotto l’azione dello Spirito e grazie all’ascolto della Parola. La capacità di immaginare un futuro diverso per la Chiesa e per le sue istituzioni all’altezza della missione ricevuta dipende in larga parte dalla scelta di avviare processi di ascolto, dialogo e discernimento comunitario, a cui tutti e ciascuno possano partecipare e contribuire. Al tempo stesso, la scelta di «camminare insieme» è un segno profetico per una famiglia umana che ha bisogno di un progetto condiviso, in grado di perseguire il bene di tutti. Una Chiesa capace di comunione e di fraternità, di partecipazione e di sussidiarietà, nella fedeltà a ciò che annuncia, potrà mettersi a fianco dei poveri e degli ultimi e prestare loro la propria voce. Per «camminare insieme» è necessario che ci lasciamo educare dallo Spirito a una mentalità veramente sinodale, entrando con coraggio e libertà di cuore in un processo di conversione senza il quale non sarà possibile quella «continua riforma di cui essa [la Chiesa], in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno» (UR, n. 6; cfr. EG, n. 26).
Queste parole ci interpellano. Possiamo di nuovo ritornare a quella fonte della Rivelazione che è la Sacra Scrittura e in particolare all’esperienza dell’Apostolo Pietro per trovare delineata la strada da percorrere, atta ad immaginare un «futuro diverso», così si esprimeva il documento, e per certi versi inedito della Chiesa. Ascoltiamo ed accogliamo di nuovo cosa accadde quando la Chiesa primitiva si trovò davanti alla sorprendente novità data dal fatto che anche i pagani diventavano discepoli di Gesù, credevano sinceramente in Lui e ricevevano lo stesso Spirito Santo già effuso sugli altri. Una novità che poneva problemi, ma che scrutata con fede profonda da parte di Pietro, non senza qualche difficoltà, rese finalmente la Chiesa quello che è ancora oggi, ossia universale.
Potremmo partire dal Vangelo di Marco, che un’antica tradizione considera un riflesso della predicazione di San Pietro a Roma. Lo scritto del secondo Vangelo è intimamente orientato verso il momento in cui il centurione romano, di fronte alla morte in croce di Gesù Cristo, dice: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). Presso la Croce si svela il mistero di Gesù Cristo. È in qualche modo emblematico che per Marco l’identità di quel «Nascosto» che era Gesù (cfr il «segreto messianico) e che solo in momenti particolari, come la Trasfigurazione si era rivelata agli occhi di pochi discepoli, fra cui Pietro, adesso, al momento della crocifissione, sia palesata attraverso le parole di un pagano.
Sotto la Croce nasce così la Chiesa delle genti, quando il centurione del plotone romano di esecuzione riconosce in Cristo il Figlio di Dio. Ma gli Atti degli Apostoli descrivono come tappa decisiva per l’ingresso del Vangelo nel mondo dei pagani l’episodio di Cornelio, il centurione della coorte italica. Dietro un comando di Dio, egli manda qualcuno a prendere Pietro e questi, seguendo pure lui un ordine divino, va nella casa del centurione e predica: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga. Questa è la Parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, annunciando la pace per mezzo di Gesù Cristo: questi è il Signore di tutti (At 10, 34-36).
Mentre sta parlando, lo Spirito Santo scende sulla comunità domestica radunata e Pietro dice: «Forse che si può proibire che siano battezzati con l’acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?» (At10,47). Così, nel Concilio degli Apostoli, Pietro diventerà l’intercessore per la Chiesa dei pagani i quali non hanno bisogno della Legge, perché Dio ha «purificato i loro cuori con la fede» (At 15,9). Certo, nella Lettera ai Galati, Paolo dirà che Dio ha dato a Pietro la forza per il ministero apostolico tra i circoncisi, a lui, Paolo, invece per il ministero tra i pagani (2,8). Ma questa assegnazione poteva rimanere in vigore soltanto finché Pietro rimaneva con i Dodici a Gerusalemme nella speranza che tutto Israele aderisse a Cristo. Di fronte a questo ulteriore sviluppo, i Dodici riconobbero l’ora in cui anch’essi dovevano incamminarsi verso il mondo intero, per annunciare il Vangelo. Pietro che, secondo l’ordine di Dio, per primo aveva aperto la porta ai pagani lascia ora la presidenza della Chiesa cristiano-giudaica a Giacomo il minore, per dedicarsi alla sua vera missione: il ministero per l’unità dell’unica Chiesa di Dio formata da giudei e pagani. Così il Signore ha ispirato ai due Apostoli più importanti, Paolo e Pietro, il desiderio di arrivare fino alla capitale dell’impero di allora perché fosse chiara la natura della Chiesa del periodo post pasquale. Che fosse cioè cattolica, cioè universale, ed una. Soprattutto Pietro sente questo compito come suo, per i comandi che il Signore gli aveva lasciato, soprattutto quello di pascere nell’amore il gregge di Dio formato ormai da giudei e pagani: la Chiesa di tutti i popoli. Questa è la missione permanente di Pietro: far sì che la Chiesa non si identifichi mai con una sola nazione, con una sola cultura o con un solo Stato. Che sia sempre la Chiesa di tutti. Che riunisca l’umanità al di là di ogni frontiera e, in mezzo alle divisioni di questo mondo, renda presente la pace di Dio, la forza riconciliatrice del suo amore.
È abbastanza raro trovare nella Sacra Scrittura indicazioni così chiare su un problema che attualmente ci interpella. Cercare ovvero un futuro diverso per la Chiesa e le sue strutture in un mondo che cambia rapidamente, che sembra, almeno qui in Occidente, disincantato e disinteressato al messaggio evangelico nonostante sia stato riproposto per secoli. Per tale ragione ho presentato a voi la figura dell’Apostolo Pietro che visse questo travaglio all’inizio del cammino della Chiesa e, soprattutto, perché la sua originale vicenda personale e spirituale, a diretto contatto col Signore, avendo beneficato della prima effusione dello Spirito sulla comunità dei credenti, divenga così luminosa e paradigmatica per ogni esperienza discepolare nella Chiesa di ogni tempo e soprattutto oggi per noi.
Parlare ad un Istituto Teologico regionale, permettetemi, mi richiede di spronare ognuno di voi ed anche me stesso in quanto Vescovo moderatore, ad essere come Pietro, secondo lo specifico di ciascuno, ma anche come insieme di comunità docente e discente. Questo luogo non sia solo un posto come altri utile solamente a raggiungere un titolo da spendere in altri contesti o per prepararsi ad un ufficio o ministero nella Chiesa. Sia un luogo dove si, si studia e si riflette, ma anche si immagina quel futuro diverso per le nostre chiese locali dove torneremo ricchi della formazione appresa qui. Un luogo dove, perché no, si ascolti lo Spirito, si penetrino le Scritture, si ragioni sul presente problematico al fine di formare cristiani e cristiane solidi, di cui oggi tanto la Chiesa che la società hanno bisogno come dopo una lunga indigenza. Un teologo autentico non potrà che trarre vantaggio ad essere simile a Pietro, un discepolo che ne ha passate tante, ma mai ha perso la generosità nel servizio al Signore e alla sua Chiesa. Ne sono testimonianza sia i Vangeli, che qui abbiamo voluto ricordare, sia gli scritti che sono fatti risalire a lui.
La Chiesa come sappiamo e ormai tanti riconoscono non solo deve guardare al suo interno, alle modifiche più opportune o alle correzioni ormai resesi necessarie, ma è chiamata anche a confrontarsi con altri aspetti che accompagnano la nostra società contemporanea, fra questi il già ricordato progressivo allontanamento di essa dalla comunità ecclesiale, la scienza e le conseguenti tecnologie che regolano da tempo le vite degli esseri umani, l’incalzare degli algoritmi e della cosiddetta intelligenza artificiale che scandiscono ormai le scelte dei singoli e dei gruppi sociali. Come risponderà la Chiesa a queste istanze, come cercherà di dialogare ed interagire con la società ed i mondi contemporanei? Non ci sentiamo interpellati come comunità che studia teologia da questi affascinanti interrogativi?
Recentemente il decano dei teologi italiani, don Severino Dianich, ha strigliato i suoi colleghi tacciandoli di tradimento, perché incapaci, a suo dire, di proferire una parola ficcante sui fatti che accadono nel mondo e sui processi culturali in atto. È certo che la Chiesa sta vivendo un travaglio che la porterà ad una trasformazione o ad una nuova nascita, certamente diversa dalle precedenti a cui siamo da secoli abituati. Negli anni che seguirono il Concilio, mentre si diffondeva il movimento nato nel Maggio del 1968, il gesuita Michel de Certeaux, molto ascoltato nella laicissima Francia e che arrivò a dirigere gli studi dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi parlava di «cristianesimo in frantumi». Una espressione scomoda che allora non fu accettata, ma di cui oggi sentiamo gli effetti. Come sarà il cristianesimo di domani? Non è dato sapere, perché è come chiedersi come sarà il mondo nel prossimo futuro, nel quale la Chiesa coi suoi membri sarà inserita. Il Santo Padre ci ha domandato di prendere la strada della sinodalità, dell’ascolto attento e amorevole di tutto e di tutti, affinché la Chiesa sia effettivamente quella realtà visibile, ma ricca di Mistero, dove ognuno, in particolare l’ultimo ed il povero, possono sentirsi di casa e ricevere quel bene della Grazia che salva che solo lei può dare, certa com’è della presenza in essa del Signore Risorto.
La vita con i cambiamenti e le conversioni del Santo Apostolo Pietro che ho tentato di tratteggiare, ripresentando ciò che in fondo ognuno può leggere nella Bibbia, non rimane solo un’icona da contemplare e basta. Essa ancora oggi delinea la figura del discepolo e della discepola che seguendo il Signore con gioia non perde mai quella virtù che indica la via, la Speranza, poiché come Pietro anche noi siamo: «Rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce» (1Pt 1,4).
Le sue parole, conservate negli scritti inviati ai cristiani del suo tempo, sono di una tale bellezza, tanto che se non fossero inserite nel Canone dei libri ispirati della Bibbia, richiederebbero ugualmente la nostra attenzione. Risentiamole ancora:
«E infine siate tutti concordi, partecipi delle gioie e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili. Non rendete male per male né ingiuria per ingiuria, ma rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione.
Chi infatti vuole amare la vita
e vedere giorni felici
trattenga la lingua dal male
e le labbra da parole d’inganno,
eviti il male e faccia il bene,
cerchi la pace e la segua,
perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti
e le sue orecchie sono attente alle loro preghiere;
ma il volto del Signore è contro coloro che fanno il male.
E chi potrà farvi del male, se sarete ferventi nel bene? Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3, 8-15).