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OMELIA NELLA DOMENICA DELLE PALME

Gesù l’attraversa per l’ultima volta quella porta posta ad oriente, situata ancora oggi tra le mura che circondavano il Tempio di Gerusalemme. Chiamata la “Porta d’oro” o della “misericordia”, perché risplende della luce del sole che sorge dall’alto (Cf Lc 1,78; At 3,2)). E’ il giorno nuovo sta per sorgere (Cf Gv 8,12). E’ il giorno del Messia atteso potente, liberatore, imponente. Eccolo, è lui, ci dice Luca ad avanzare, a “camminare davanti a tutti verso Gerusalemme”. Gesù aveva proclamato di se stesso essere la porta (Cf. Gv 10,1ss), l’ingresso che permette a chi attraversa, di misurarsi con la misericordia e la tenerezza di Dio. Una misura scossa e traboccante versata nel grembo (Cf. Lc 6,38). Il racconto della Passione che Luca ci fa attraversare oggi come una porta che conduce nei giorni più santi, è un vero e proprio ingresso nella misericordia. Ricapitola l’intero suo Vangelo, presentando la figura di Gesù come il giusto che compie la giustizia di Dio, che è il suo amore. Sono i salmi cantati nella cena pasquale, ad evocare l’eterna sua misericordia (Cf Sal 135). Gesù è il Messia pieno di Spirito Santo, come annunciato nella Sinagoga di Nazareth, inviato per liberare oppressi e schiavi, per aprire gli occhi dei ciechi e per inaugurare l’anno di misericordia da accogliere o da rifiutare (Cf. Is 61; Lc 4). Lo Spirito Santo è la chiave d’ingresso per quella porta che conduce nel cuore del Padre, silenzioso, ma invocato da Gesù crocifisso nel racconto della passione, come il misterioso regista degli avvenimenti. Ed è a qual Padre, di cui il Figlio si è occupato fin dalle prime battute del terzo Vangelo (Cf. Lc 2,49), che viene consegnato lo Spirito: “Padre nelle tue mani consegno il mio Spirito” (Lc 23,46).

Il Messia, il Figlio del Padre, attraversa la porta risplendente di luce su un puledro. Il Primo Testamento, di cui Gesù nella passione è pienezza di senso, riferisce come Abramo aveva legato la legna (aquedàt) per il sacrificio del figlio Isacco su un puledro (Cf. Gn 22,11). Il figlio d’asina è protagonista nel racconto di Balaam (Cf. Nm 22,1ss). La sua voce è profezia di benedizione per Israele. Zaccaria, lo segnala quale cavalcatura del Messia mite ed umile (Cf. Zc 9,9-10). La letteratura rabbinica, ricorda come la discendenza di quel puledro, si aggirava per il Monte degli Ulivi nell’attesa del Messia. Non fu un colpo di genio, quello del Rabbì di Nazareth, venuto a sedere sul trono di Davide, avanzandone i diritti. La sua, non fu una risposta al potere arrogante delle cavalcature romane. Il suo Regno è dei miti, lo aveva detto in apertura del programma messianico: dei poveri, di coloro che piangono, dei perseguitati a causa della giustizia (Cf. Lc 6,20-23). Quelle parole si compiono nell’umile maestro di Nazareth, figlio di Davide. Tuttavia, altre parole sono pronunciate su di lui in quella liturgia della strada: Osanna! E’ il grido del popolo, di tutti noi: “Dà la salvezza!”. Solo Dio salva. Con straordinario impatto narrativo, l’evangelista Luca, porta a compimento quanto annunciato all’inizio del suo Vangelo: Dio si ricorda del suo popolo, fa grazia, egli è il misericordioso (Cf. Lc 1,58ss; 1,78). Ma la folla ambigua, chiederà a Gesù di salvarsi da solo, di scendere dalla croce, di dimostrare la sua figliolanza divina. Ora, l’amore di Dio non si dimostra, si mostra. Il crocifisso non scenderà dalla croce, si affiderà al Padre, origine della salvezza e mostrerà che Dio salva nella morte. Questa fiducia che il Padre non lascerà il Figlio in preda alla morte, è la porta d’ingresso della nostra salvezza e della sua vita in noi.

A Gerusalemme, Gesù vi entra per essere “l’uomo dei dolori” (Is 53,11) che ben conosce il patire, che non lo spiega, ma lo vive fino in fondo, fino al dono di sé. Svuotato di tutto, ma non dell’amore, lo moltiplica oltre misura. Eccola la passione di Dio per noi. Quella che oggi risuona nelle nostre Chiese, quella che si unisce al dolore e alla speranza di ogni uomo e di ogni donna sulla terra. La passione non si spiega, si vive fino in fondo.

Ogni anno ne ripercorriamo i tempi e i ritmi attraverso la liturgia, che fissa un misterioso spazio fuori dal tempo, nel quale anche noi siamo protagonisti di quello che Luca chiama: “lo spettacolo”, che fa battere il petto alla folla, e negli Atti degli Apostoli, “trafigge il cuore” di quanti ascoltano l’annuncio pasquale di Pietro: “voi lo avete crocifisso” (Cf. At 2,36-41). Occorre apprendere dalla “scuola della passione”, l’alfabeto dell’amore, la totalità del dono di sé.

In questi giorni non abbiamo più parole davanti all’orrore della morte di uomini e donne, di bambini e adolescenti. La crudeltà del dolore e della morte inflitte al giusto Gesù, ritornano nelle decisioni dei potenti senza scrupoli, ostinati a salvare se stessi e il loro potere. Le odierne forme di teocrazia e tecnocrazie, continuano a crocifiggere i piccoli in nome del dominio e benessere di pochi, su una moltitudine sterminata segnata da povertà e ingiustizie. Le recenti decisioni di armarsi per difendere confini, politiche ed economie nazionali, ci fa tornare indietro sui nostri passi e su quelle scelte comuni e profetiche, nate dai deprecabili orrori bellici del passato. Quel fragile equilibrio di pace che le nostre generazioni hanno goduto, oggi è messo in discussione ed è in ricatto. Torna il desiderio antico di salvare se stessi, dominati dall’ansia di protagonismo. Ma lo sappiamo che nessuno si salva da solo. Gesù rispose a quella tentazione ultima a cui il divisore, il diavolo, aveva dato appuntamento “al tempo fissato” (Lc 4,13), con parole di fiducia e di abbandono, rimettendo nelle mani di un Altro il suo destino: “Padre perdona!”. Oggi proclameremo queste altissime parole e questo Vangelo di speranza, tra i rumori assordanti della guerra. Davanti a quello spettacolo di odio che può rendere o cinici o misericordiosi. Le intrecceremo ai nostri racconti, alle fatiche del vivere, alle speranze che germogliano dal cuore, per il domani. La passione di Gesù non finisce tra le mura delle nostre Chiese, come non finì nel ristretto circondario di Gerusalemme. Gesù morì fuori le mura della città, che uccide i profeti. Tra lo scarto del dolore umano, sempre perdente per la logica del potere. C’è un invito ad uscire, ad essere testimoni dell’amore dato, fino agli estremi confini della terra. Solo così Gesù, con me e con te, sarà il Dio con noi, la cui promessa si realizza in quell’editto straordinario, che il Re morente proclama per l’ultimo dei malfattori: “Oggi sarai con me”. Già, con me! Perché Gesù non smette anche oggi di essere Dio con noi, mentre l’uomo patisce.  Dio, il Dio dei poveri e degli ultimi è solidale con la nostra morte, ed è garante nella sua resurrezione della nostra vita per sempre.

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