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DOPO CUTRO

  “L’avete fatto a me!”( Mt,25,41)

“Ennesimo naufragio”. Questa è la formula di rito con cui ogni volta ci si ritrova a commentare le stragi annunciate che si ripetono nel mare nostrum. Puntualmente ci si ritrova a fare disamine e proclami e con altrettanta puntualità a smentirli. Dalla strage di Lampedusa avvenuta il 3 ottobre 2013, si calcola siano morti nel Mediterraneo circa 26.000 migranti. Oltre 70 solo nell’ennesimo naufragio lungo le coste calabresi. E il numero è destinato ad aumentare, purtroppo.

Senza voler entrare in merito alle questioni riguardanti le operazioni di polizia o di soccorso, viene da chiedersi se davvero era necessario immolare tutte queste vittime sull’altare della nostra ipocrisia. È proprio vero che la responsabilità, come qualcuno ha commentato, è di chi in preda alla disperazione decide di partire? Davvero, per parafrasare Warsan Shire, la giovane poetessa keniota, un genitore penserebbe di mettere in salvo i figli su una barca se le cose sulla terra ferma fossero tranquille?

Poi riprendo il vangelo e ripenso a quel martellante ritornello che ricorre sulle labbra di Gesù allorquando ripete “lo avete fatto a me”.

Sembrerebbe un vangelo laico. Nulla di confessionale o di religioso. Tutto dal versante dell’uomo, della vita, delle relazioni intrattenute. E paradossalmente, proprio perché tutto dal versante dell’uomo, anche tutto dal versante di Dio. Il senso della vita in quello che siamo stati capaci di condividere con i fratelli e le sorelle in umanità. Già: l’essere fratelli e sorelle in umanità viene prima di ogni vincolo etnico o religioso

L’essere uomo o donna secondo Dio è racchiuso in cinque parole: lo avete fatto a me. Tutto qui. Al centro un amore declinato attraverso il prendersi cura, l’avere occhi, gesti, mani, attenzione per chiunque incrocia i nostri passi facendosi mendicante. Ecco ciò che rimane, ciò che è definitivo, ciò che conta e ciò per cui vale la pena spendere la propria vita.

Si realizza il sogno di Dio sull’umanità ogni volta in cui qualcuno mette tutta la propria passione nel riscatto e nella riconciliazione degli uomini, quando qualcuno è riportato alla vita ed è restituito alla dignità di poter ancora sperare.

Compito possibile a chiunque, a portata di mano, dell’umile misura di un bicchiere d’acqua. Compito messo in pratica, vangelo realizzato anche da chi non ha mai conosciuto il Signore: quando, Signore? Questo è il vangelo perché questa è la vita: acqua, pane, un tetto, un vestito, una visita, un’ospitalità. E chi non lo capisce questo vangelo? Qui non c’è nulla da imparare a memoria. Come non ci sono appartenenze da rivendicare.

Gesù ci racconta un Dio che ha fame, un Dio che prova sete, un Dio che fa sua tutta la vulnerabilità dell’uomo e perciò chiede di essere riconosciuto e accolto su questo versante. A tema la corporeità e la concretezza di quella prassi di cui tutti possono essere costituiti segno, anche a loro insaputa.

Vita benedetta quella non attraversata dalla volontà di mettere al sicuro anzitutto se stessa e le proprie cose. Vita benedetta quella di un gran numero di uomini e di donne che ogni giorno vìola l’impulso irresistibile alla cura di sé mediante il prendersi cura di un altro. Vita benedetta quella di chi non persegue una sua perfezione religiosa ma quella capace di offrire riscatto alla debolezza dell’altro così come fa capolino nella tua storia.

Là dove ci sono persone capaci di praticare la giustizia esse sono una consolazione per chiunque arrivi al mondo e sono la rivelazione più luminosa di ciò che è l’uomo e di chi è Dio.

                                                                                           Don Antonio Savone

                                                                                                 Vicario episcopale

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