LA LUCE RIFLESSA DELLA SANTITÀ

*nella foto di copertina: Città del Vaticano, 11 febbraio 1966. Udienza privata di S.S. Papa Paolo VI a S.E. mons. Augusto Bertazzoni, accompagnato da mons. Michele Rotundo e da don Armando Casale.
Venticinque anni fa ci lasciava don Michele Rotundo, sacerdote colto e discreto, figura chiave della Chiesa potentina nel corso del Novecento.
Fino alla fine della sua lunga esistenza, don Michele Rotundo (1913-2000) portò nel cuore una preghiera: la beatificazione dell’arcivescovo mons. Augusto Bertazzoni. Da lui venne ordinato sacerdote nel 1939 e da lui si lasciò guidare e ispirare nel suo ministero per oltre quarant’anni. Una vicinanza nutrita di ammirazione e affetto filiale, riflesso della luce calda e gentile che il suo vescovo emanava.
Ma le cause dei santi attraversano generazioni. Dopo la morte di don Michele, il 20 aprile 2000, ci vorranno ancora diciannove anni per veder proclamata la venerabilità di mons. Bertazzoni, tappa verso la beatificazione. La Chiesa potentina continua a pregare, rimettendosi ai tempi insondabili della Provvidenza; ma quando il suo vescovo più amato del Novecento avrà l’onore degli altari, allora don Michele andrà ricordato come un artefice indispensabile della causa.
Testimone
Fu don Michele – per decenni figura centrale della diocesi potentina e della cattedrale di san Gerardo, dove ebbe i ruoli di canonico, teologo, economo e arcidiacono presidente – ad avviare, il 30 ottobre 1995, il processo diocesano informativo sulla vita, le virtù e la fama di santità di mons. Bertazzoni. Fu l’ultimo grande impegno della sua vita. Prima, come giudice delegato dell’arcivescovo Appignanesi, raccolse un centinaio di rilevanti testimonianze (cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici e laiche) e curò la produzione degli atti destinati alla Congregazione per le Cause dei Santi. Nella fase terminale delle audizioni, al fine di offrire alla causa anche la personale memoria, rinunciò al ruolo di giudice e assunse quello di testimone: testimone privilegiato, vista la lunga frequentazione con mons. Bertazzoni e l’intima conoscenza del suo animo, della sua carità pastorale, del suo amore per i sacerdoti, gli umili, gli ultimi.
Nella sua deposizione, don Michele affermava: “La mia testimonianza assume il significato di una preghiera al Signore, perché voglia glorificare il suo Servo che ha giocato la sua vita per il Regno di Dio”. Una testimonianza, diceva, nata da un duplice impulso: “Compiere un dovere e soddisfare un bisogno. Il dovere di rendere omaggio alla figura di un Pastore incarnato per trentasei anni nella vita della città di Potenza e della Chiesa potentina; il bisogno di dire pubblicamente la mia viva gratitudine a chi fu padre del mio sacerdozio, maestro del mio cammino spirituale e del mio servizio a questa Santa Chiesa di Potenza, sicuro punto di riferimento dal suo arrivo sino alla morte, nel 1972.”
Fu proprio lui, ancora giovane seminarista, a salutare Bertazzoni appena insediato a Potenza, nell’ottobre del 1930. E fu al suo fianco, da sacerdote, in diverse iniziative pastorali e sociali: dalla riorganizzazione della diocesi nel dopoguerra, alla rinascita dell’Azione Cattolica, fino alla fondazione delle ACLI (Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani). Don Michele, poi, contribuì attivamente alla riflessione sul Concilio Vaticano II, a cui mons. Bertazzoni partecipò nonostante l’età avanzata.
Nella sua testimonianza, don Michele tracciava un ritratto vivido del suo vescovo, mettendone in luce i carismi umani e spirituali. Lo definiva “allievo e compagno di santi”. E proseguiva: “Prese a camminare sulle vie della santità dando alla sua vita il valore di una testimonianza di carità e vivendo il suo sacerdozio come una missione di amore secondo la definizione di sant’Agostino: officium amoris. I lineamenti essenziali della sua esistenza furono quelli della sequela di Cristo nella via della Croce, una sequela che ebbe una connotazione eroica non nel martirio, ma nella quotidianità segnata da fedeltà e costanza. Volle essere trasparenza di Cristo nella totalità del suo essere e nella totalità del suo agire.”
Il profilo veniva arricchito anche da esempi concreti di carità e calore umano, come una speciale attenzione che don Michele ricevette in prima persona dal suo vescovo. Nell’inverno del 1934, quando era ancora seminarista, fu costretto da una grave malattia polmonare a rientrare in famiglia, a Sasso di Castalda – suo paese natale e anche terra d’origine del cugino don Giuseppe De Luca. A colpirlo fu la premura di mons. Bertazzoni, che prima gli scrisse una lettera carica di affetto paterno, poi addirittura si recò personalmente a fargli visita a casa. Una visita del tutto inaspettata e improbabile, soprattutto per le condizioni di viaggio dell’epoca: stradine impervie tra valli e montagne, percorse a dorso di cavallo, fino al “paese montano sul margine di faggete eterne che mai nessuno ha traversato, nel cuore più nascosto della Basilicata”, come scriveva don De Luca nella sua Ballata alla Madonna di Częstochowa.
Sacerdote e maestro
Il rapporto con mons. Bertazzoni fu per don Michele uno stimolo per orientare la sua vocazione in una pluralità di ambiti, che segneranno il suo servizio alla diocesi anche negli episcopati successivi (Sorrentino, Vairo, Appignanesi). Dalla cura delle anime alla formazione dei giovani, dal servizio pastorale all’apostolato sociale e politico, don Michele mise a frutto le sue doti in un ministero fatto di azione concreta, radicato in un’indole riflessiva e sorretto da una vasta cultura umanistica e teologica. Alla sua intelligenza speculativa seppe unire un forte senso della realtà, con uno stile inconfondibile: severo, esigente e magnanimo al contempo.
Come sacerdote, fu attivo nella parrocchia della Santissima Trinità, nella chiesa delle Discepole di Gesù Eucaristico e nella cattedrale di san Gerardo. Il suo contributo pastorale fu sempre lucido e fecondo, alimentato da fedeltà dottrinale e intensa preghiera. Nell’orazione funebre, il 22 aprile 2000, don Gerardo Messina ricordava “la sua forte spiritualità eucaristica e mariana, il suo amore tenace per la Chiesa, la sua puntigliosa cura del decoro del tempio e della liturgia, la sua delicata e profonda capacità di dialogo e di servizio per i confratelli sacerdoti, la serietà del suo impegno pastorale nei delicati incarichi che gli furono affidati.”
Incarichi che abbracciarono diversi fronti: dalla Curia diocesana all’apostolato dell’Azione Cattolica (tra l’altro, assistente ecclesiastico del Movimento Laureati), dalle ACLI ai patronati per gli operai, fino ad istituzioni educative e culturali (scuola di teologia per laici, istituto di teologia e pastorale, Istituto Superiore di Scienze Religiose dove fu direttore ed apprezzato docente di patrologia).
Il suo spirito di servizio mobilitava capacità organizzativa e rigore intellettuale: la concretezza del pastore unita al rigore dell’intellettuale. Don Michele era consigliere saggio e pragmatico, ma soprattutto teologo, uomo di cultura e formatore. Intere generazioni di professionisti lucani lo ricordano come insegnante severo e impareggiabile, prima di latino e greco, poi di religione, al Liceo Classico “Flacco” di Potenza, ricordando con ammirazione l’alto magistero, la finezza e vivacità del suo sapere che spaziava dalla patristica greca alla poesia latina, dalla teologia medievale alla letteratura moderna.
Al tempo stesso, era uomo di azione: prudente, accorto, efficace, come dimostrò anche nell’amministrazione di istituzioni civili, dall’ospedale San Carlo alla Casa di Riposo “R. Acerenza”, per lungo tempo avveduto e prudente consigliere.
Il tutto senza mai derogare a un atteggiamento modesto e riservato. Non cercava visibilità né riconoscimenti. Alla ribalta che il talento gli avrebbe garantito, preferì l’ombra, decentrandosi da sé per aumentare l’efficacia del suo servizio. Il prestigio di cui godeva negli ambienti civili e politici, non fu che uno strumento per meglio servire il Vangelo e il bene della comunità.
Chi ha avuto la grazia di frequentarlo, ne conserva l’immagine di un uomo integro, discreto e riservato, sobrio fino all’austerità, esigente ma profondamente benevolo e delicato.
L’eredità
Questa umiltà, segno di serena devozione al Padre, accompagnò don Michele nell’ora della prova e fino all’ultimo respiro, quella sera del 20 aprile 2000, dopo mesi di una malattia affrontata nel silenzio e nella preghiera.
Erano le ultime ore del Giovedì Santo dell’anno giubilare, quando la Chiesa festeggia il Sacerdozio e i fedeli pregano ai piedi della Croce. Don Michele rimetteva l’anima a Colui che aveva servito per tutta la vita.
Pochi giorni prima, il 31 marzo 2000, una gioia aveva illuminato il suo calvario: la firma del verbale della sessione di chiusura dell’indagine diocesana su mons. Bertazzoni e della lettera di trasmissione degli atti alla Congregazione per le Cause dei Santi. Lo stesso Prefetto della Congregazione, l’arcivescovo Saraiva Martins, si recò personalmente al capezzale di don Michele, che ne ricavò immenso sollievo: l’opera dei suoi ultimi anni era completa.
Ai suoi eredi di ieri e di oggi, il compito di proseguire quel tributo di riconoscenza, fino alla piena glorificazione del santo vescovo Bertazzoni.
Paolo Piro
(Autore della biografia “Mons. Michele Rotundo: messaggero, apostolo e maestro”, Ermes, 2010)