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GIOVEDÌ SANTO OMELIA PER LA MESSA IN “COENA DOMINI”

Tra il monte degli ulivi e la collina di Sion, dove la tradizione vuole sia ancora oggi situata la “Sala alta” presso la quale Gesù consumò la sua cena con i discepoli, esiste una scala di pietra, scavata nella roccia. Spesso mi è capitato di poterla vedere e sostare qualche momento in preghiera durante alcune mie visite a Gerusalemme. Quella scala secondo le narrazioni evangeliche, Gesù la notte del Giovedì Santo, l’ha percorsa più volte in discesa e in salita. Ho pensato spesso a quell’umanissimo e concitato movimento. Immaginate Gesù che sale accompagnato con gioia dai suoi per condividere il pasto pasquale. In seguito dopo la cena, forse con i discepoli un po’ brilli, escono percorrendo quelle scale e intonando i salmi pasquali. Infine, quella scala ha visto la risalita di Gesù legato e spintonato dalle guardie, dopo l’arresto al Getsemani. Da lì è condotto nel palazzo di Caifa per subire nella notte il processo farsa. Scendere e salire, apparentemente sembrano due movimenti normalissimi. Tuttavia, quella notte sappiamo che Gesù porta a compimento tutto di lui e di noi: la sua discesa nella nostra carne compie le promesse, la sua salita sulla croce realizza la nostra salvezza. In un’altra notte di intimità, Gesù aveva detto a Nicodemo: Solo colui che è uscito dal Padre può far ritorno al Padre, infatti: “Nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo” (Gv 3,13). Colui che è disceso dal cielo vi è salito portando in sé la fragile natura umana. Questo movimento, meno fisico e più profondo, tocca l’intelligenza della nostra fede.

La nostra celebrazione, ci invita a rivivere tutto questo come memoriale di speranza per l’umanità tormentata da lotte e discordie, da tradimenti e vendette. Seguiamo dunque il nostro Maestro e Signore nella sua viva passione per Dio e per l’uomo. Sembrano risuonare nella sala della cena, mentre Gesù si consegna liberamente nelle mani dei suoi, le parole ascoltate nella parabola lucana e dette dal padre al figlio maggiore: “Ricordati figlio tu rimani con me e tutto ciò che è mio è tuo” (Cf Lc 15,31). Sta qui l’ardente desiderio manifestato da Gesù di mangiare la Pasqua con i suoi (Cf Lc 22,15). Non si tratta solo della condivisione di un pasto, ma del dono di sé, che caratterizza tutta la sua esistenza terrena. Sappiamo che l’evangelista Giovanni, ultimo a scrivere un Vangelo, non ci riferisce le parole dell’ultima cena, la sua comunità le possedeva già, come un tesoro prezioso, perché trasmesse da Paolo e dagli altri Evangelisti. Egli, invece, si concentra quella sera sul gesto più basso dell’ospitalità: lavare i piedi. E lo trasforma nel più alto insegnamento per i suoi figli e le sue figlie: “Se io il Maestro e il Signore, come mi chiamate, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Cf Gv13,14).

Altri due movimenti apparentemente fisici accadono quella sera. Gesù spontaneamente si toglie le vesti e si cinge il grembiule dei servi. Il vestito nel linguaggio biblico indica la pienezza della corporalità. Qui Giovanni, con altre espressioni eucaristiche, ridice le parole di Gesù: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi, fate questo in memoria di me” (Lc 22,19). Di più, in quel gesto è anticipata la sua resurrezione. Solo Gesù ha il potere di deporre la sua vita per poi riprendersela (Cf Gv 10,17-18). Pietro, che rappresenta tutti noi agisce d’istinto, come qualche volta ci capita. In quel momento legge solo l’umiliazione esteriore del Maestro: “non mi laverai mai i piedi”. Tuttavia, Gesù con pazienza, conduce Pietro e noi, dentro il mistero di quella notte di tenebra per Giuda che è uscito fuori, ma di luce per chi rimane dentro: “Se non ti laverò non avrai parte con me”. Anche Giuda, nonostante il suo tradimento, avrebbe avuto parte con Gesù. Più tardi nel lungo discorso che il Signore farà ai suoi, il verbo “rimanere” sarà più volte pronunciato come una sorte di canto fermo che tesse il mistero di comunione, fondato nell’intimità del cenacolo. Gesù sa bene che Pietro per primo fuggirà, tradirà, ma il dono eucaristico che egli ha fatto in quel bagno d’amore, porterà i discepoli, smarriti e fuggitivi, con lui, dentro la sua morte e resurrezione. Umanamente dispersi, ma intimamente uniti, sono parte di lui. Questa è anche la nostra condizione. In ogni Eucarestia ciò che è disperso, viene radunato. In uno dei testi molto vicini alla tradizione giovannea: la Didaché o “Dottrina dei dodici apostoli” si afferma questo mistero di dispersione e unità che accompagna nel suo agire la Chiesa: “Come questo pane spezzato era sparso tra i colli, raccolto è divenuto una sola cosa, così si raccolga la tua chiesa dai confini della terra nel tuo regno” (Didaché 10). Gesù non ha fatto nulla per essere un leader, tuttavia in ogni Eucarestia i suoi gesti e le sue parole sono ancora vive e trascinano cuori e intelligenze dentro il flusso del suo amore.

Quelle scale che Gesù ha percorso la notte del Giovedì Santo, ci portano dentro la nostra più profonda umanità per farci salire e scoprire con lui la nostra divinità. Carissimi fratelli e sorelle con gli occhi mistici di Giovanni, entriamo dentro questo mistero di intimità pasquale, portiamoci tutta la nostra quotidianità, sentiamoci parte del nostro Maestro e Signore. Questa sera Gesù continua a donare la sua vita per tutti noi, chiede solo di essere riconosciuto ed amato. Non chiede imprese eroiche, ma di porre i nostri piedi su quelle scale da lui percorse, per ricominciare la nostra salita verso l’uomo e verso Dio.

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