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PIETÀ POPOLARE, FEDE, POLITICA E FOLKLORE

Il periodo dell’anno in cui il bel tempo caratterizza le giornate corrisponde anche al tempo in cui la pietà popolare trova maggiore espressione. Essa è caratterizzata da una forte dimensione emotiva e relazionale, offrendo ai fedeli un senso di appartenenza e comunità. Si tratta di una fede incarnata nella vita quotidiana, che trova nelle pratiche popolari una forma di connessione immediata con il divino.

Processioni, celebrazioni patronali o festività legate al calendario liturgico attirano un vasto numero di partecipanti e indubbiamente rappresentano un importante momento di aggregazione, oltre che religioso, anche sociale e culturale in molte comunità.

Proprio per questo sono un’occasione di riflessione sul legame tra tradizione e modernità, tra Chiesa e Istituzioni, religione e politica, che sollecita a trovare e custodire sempre più il giusto equilibrio per salvaguardare l’elemento fondamentale e natio dell’autentica pietà popolare. L’evento religioso è di per sé stesso un fatto sociale aggregante e culturalmente rilevante, ma conserva l’interesse per la vita ecclesiale solo se ne mantiene la specificità e i fini propri, contribuendo alla crescita della fede nel Popolo di Dio. In altre parole, la presentazione di un’opera letteraria, di un manifesto politico e di una processione religiosa sono tre eventi aventi incidenze culturali e sociali senza ombra di dubbio, ma con origini e motivazioni diverse, interessanti e utili alla comunità esclusivamente nella misura in cui non si confondono tra di loro.

Il rischio ricorrente è quello dell’inquinamento delle fonti: aspetto religioso da una parte e aspetto folkloristico dall’altra, che condurrebbe a manifestazioni strumentalizzabili da possibili altri interessi, di volta in volta emergenti. Lo stile che aiuta a mettere al riparo da simili pericoli è quello della semplicità, della trasparenza nella gestione organizzativa e del sapiente utilizzo anche degli equilibrati fondi economici che i fedeli o le istituzioni mettono a disposizione per poter realizzare le opportune manifestazioni.

Per esempio, in un contesto come quello contemporaneo, dove la guerra nel mondo e il rischio di marginalità economica, sempre crescente con un ampliamento della forbice tra ricchi e poveri, sta aumentando oltre misura, la comunità ecclesiale e quella civile dovrebbero naturalmente comprendere che lo sfarzo eccessivo e lo sperpero di denaro pubblico o dei fedeli finiscono per non comunicare nulla a chi già non comprende, se non addirittura a generare scandalo e a confondere gli stessi fedeli.

Le feste popolari, se avessero solo una parvenza del sacro, svuotate del loro contenuto cristiano, non renderebbero credibile la fede da parte dei lontani, mentre i giovani le rifiuterebbero perché prive di ogni valore di autentica testimonianza cristiana e i poveri vi coglierebbero più una provocazione che un annuncio gioioso della salvezza.

Interessante è il tema della partecipazione di esponenti della comunità politica alle manifestazioni di pietà popolare. Questa è da sempre una questione controversa. Da un lato, i politici sono rappresentanti delle comunità e, in quanto tali, la loro presenza è un segno di vicinanza alla popolazione e alle sue tradizioni. Dall’altro lato, la partecipazione di esponenti pubblici a manifestazioni di carattere religioso può sollevare dubbi sulla rappresentanza di un’intera comunità, che è fatta anche da chi è lontano dalla fede, allorquando la presenza diventa partecipazione attiva a espressioni meramente liturgiche e propriamente ecclesiali.

Non è in discussione la fede personale di un politico o di un rappresentante delle istituzioni che partecipa a un evento religioso popolare: essa resta intatta prima e dopo l’investitura popolare, a dispetto di quanto una malcelata laicità, spesso invocata fuori luogo, vorrebbe far credere. Ma è in gioco la modalità di vivere la sana laicità. Se così non fosse, vorrebbe dire che quando un’istituzione è rappresentata da un politico cattolico, questi partecipa alla festa; quando invece l’istituzione dovesse essere rappresentata da un politico non cattolico, questi non dovrebbe partecipare. Sarebbe una vicinanza popolare a tempo, parziale, non inclusiva, e presterebbe il fianco a un’interpretazione opportunistica, cioè di mera ricerca di consenso elettorale.

Invece, la vera laicità, di cui la Chiesa risulta essere la principale interprete oltre che la depositaria dell’origine a partire dal termine stesso, è per antonomasia inclusiva, cioè prevede il rispetto per ogni manifestazione di qualsiasi culto religioso a cui le istituzioni garantiscono la possibilità di esprimersi. La laicità autentica non è quella che esclude o diventa partigiana, come quella francese, ma è estremamente inclusiva e liberante. Non si presta a fraintendimenti, perché il politico che parteciperà agli eventi non sarà investito del ministero dell’accolito o di lettore, e non ruberà il posto ai chierichetti, ma parteciperà per quella che è la sua funzione, a prescindere dalla fede personale.

A tutela di tutto questo c’è il dovere del magistero della Chiesa a garantire che la fede venga vissuta in modo reale e coerente con la rivelazione divina e con la tradizione autentica. Essa ha il dovere di vigilare affinché non si scivoli in forme superstiziose o contrarie alla dottrina cattolica.

Uno dei documenti chiave del magistero su questo tema è l’Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi (1975) di Papa Paolo VI, che sottolinea il valore della pietà popolare come espressione genuina della fede. Tuttavia, Paolo VI evidenziava anche la necessità di un “discernimento” affinché la pietà popolare non venga distorta o si allontani dai principi della fede cristiana. Anche Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco hanno insistito sull’importanza della pietà popolare come segno della fede del popolo, specialmente tra i poveri, evidenziando però la necessità di accompagnarla e purificarla quando necessario.

Una ricchezza immensa per tutti, e che tutti hanno il dovere di custodire nel suo significato più pieno.

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