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LA PORTA DELLE CENERI

(Gl 2,12-18; 2Cor 5,20-6,2; Mt 6,1-6.16-18)

Un esercizio di verità …


Il mercoledì delle Ceneri è come una porta attraverso la quale passare per riconoscere e accogliere ciò che Dio intende fare con ciascuno di noi. Dio ha intenzione di revocare la sentenza di condanna che pendeva su di noi e per questo ci invita a lasciarci riconciliare da lui, a lasciarci amare da lui. Ora, l’attraversamento di questa porta avviene mediante l’accoglienza di un segno esteriore, quello della cenere, che vorrebbe tradurre quanto la parola di Dio ci ha già sollecitati a compiere: laceratevi il cuore…
Il tempo che sta davanti a noi ci annuncia che Dio per primo si è lasciato lacerare il cuore per mostrare quali sentimenti esso ospitava e ancora ospita. Quel cuore non conosce sentimenti di rivalsa o di vendetta. Quel cuore ospita una ostinata volontà di riconciliazione e di perdono. Davanti a quel cuore vogliamo aprire anche noi il nostro e riconoscere che in esso sedimentano sentimenti di male, di rancore, d’invidia, di gelosia, di inimicizia, di risentimento. Il gesto di ricevere la cenere sul nostro capo vuol essere l’umile riconoscimento di ciò che abbiamo accumulato nel cuore.
Ma che cos’è la cenere? È ciò che resta dopo la combustione di qualcosa. Essa richiama ciò verso cui tende ogni cosa, la fine della nostra stessa esistenza. Essa è memoria del fatto che noi siamo poca cosa, come l’erba del campo che spunta al mattino e avvizzisce la sera. Essa è memoria della nostra finitudine. La cenere ci ricorda la tragica possibilità di ridurre in polvere i tanti doni che Dio ci ha partecipato, la possibilità di rendere vano ciò che egli ci ha offerto.
Da quale materiale proviene questa cenere di cui sarà cosparso il nostro capo?
È la cenere del nostro orgoglio, della nostra voglia di primeggiare su tutti.
È la cenere di quel tempo riempito di tante cose tranne che di silenzio, di lode, di adorazione, di preghiera.
È la cenere che ci resta tra le mani quando perseguiamo logiche egoistiche in cui gli altri sono solo strumenti di cui servirsi.
È la cenere che stringiamo nel nostro pugno dopo amicizie, relazioni vissute senza serietà, per abitudine, con superficialità.
Le ceneri sono memoria del nostro limite, della nostra fragilità. Tutto questo, se riconosciuto con umiltà, non è materiale di scarto. La liturgia ci annuncia che Dio sa trarre vita anche dalla morte. Questa che stiamo celebrando è una celebrazione austera ma non triste. Infatti, la stessa cenere che è simbolo di distruzione è anche ciò che si usava per dare candore alla biancheria; essa è ancora materiale prezioso per fecondare i teneri germogli seminati nel terreno della nostra esistenza. Mediante l’opera di Dio ciò che in noi è memoria di un fallimento, diventa occasione di fecondità.
Le ceneri non sono soltanto memoria di una fine ma ci fanno rivivere la sorpresa degli inizi del mondo, ricordandoci che vale, per ciascuno di noi, il gesto creatore: “Il Signore Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gn 2,7). Pur fragili come la polvere, siamo continuamente ravvivati dallo Spirito di Dio.
L’opera di Dio fa sì che quelle ceneri si trasformino in un desiderio di vita diversa mediante la conversione; quelle stesse ceneri ci ricordano il desiderio di una armonia nuova con noi stessi e che si traduce attraverso il digiuno; inoltre, ci richiamano il desiderio di un rapporto autentico con il Signore mediante l’ascolto della sua Parola e quella preghiera tipica del credente che non conosce luoghi esteriori ma il segreto del cuore; infine, ricordano il desiderio di relazioni fraterne volte a farsi carico della situazione di chi è nel bisogno mediante l’elemosina.
Ricevere le ceneri, allora, significa compiere un esercizio di verità che ci invita ad abbassare le difese, a togliere le nostre maschere perché Dio possa compiere quanto è nel suo cuore.
Forse non facciamo fatica a confessare tutto il nostro scetticismo e a fare le nostre le parole che, ne I promessi Sposi, l’Innominato rivolge al Cardinal Federigo quando gli chiede: «Ma Dio! se c’è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?”. E il cardinale rispose: “Un segno della sua potenza e della sua bontà. Vuol cavare da voi una gloria che nessuno potrebbe dare. Cosa può fare Dio di voi? E perdonarvi? E farvi salvo e compiere in voi l’opera della redenzione?».
Cosa può fare Dio di me? Vuole che ciascuno risorga dalla propria polvere, dal proprio limite e dalla propria eredità.
I giorni che abbiamo davanti sono i giorni che Dio ci concede di vivere nel deserto per vagliare ciò che ognuno di noi porta nel suo cuore. Sono giorni che sollecitano una scelta di vita, quella di andare oltre le apparenze, scorgere la verità e il senso delle cose che diciamo e di quelle che facciamo. Sono giorni a noi offerti per imparare a coltivare il cuore perché non inaridisca e non si lasci dominare dalla paura e dalle preoccupazioni.

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